VITA DI FEDERICO OZANAM

 
Federico Ozanam nasce a Milano. Compie gli studi ordinari nel Collegio Reale di Lione e nel 1835 è a Parigi, dove segue i corsi di diritto e di lettere all’Università della Sorbona. Il 23 aprile 1833 è nel piccolo gruppo di studenti che si riuniscono per dare inizio alla prima “Conferenza di Carità”. Il loro scopo è di testimoniare in modo personale ed autentico il proprio cristianesimo attraverso la visita ai poveri a domicilio. Fu questa l’iniziativa che diede origine alla Società di San Vincenzo De Paoli. Nel 1840 viene nominato alla Sorbona di Parigi professore di letterature straniere. Nel 1848 partecipa alla fondazione del giornale “L’Ere Nouvelle”, con il quale si cercava di “permeare dello spirito del Cristianesimo le istituzioni repubblicane”. Il suo pensiero ha notevolmente influito nella evoluzione del pensiero sociale dei cattolici fino alla “Rerum novarum”. Giovanni Paolo II° lo ha proclamato beato nella cattedrale di Notre Dame a Parigi il 22 agosto 1997 in occasione della XIIa Giornata Mondiale della Gioventù.
 

1. La giovinezza: crisi ed entusiasmo

"Bisogna, caro amico, che io entri in qualche particolare circa un periodo penoso della mia vita, che cominciò quando entrai nel corso di retorica e che finì l'anno scorso. A forza di sentir parlare di increduli e di incredulità, mi chiesi per qual ragione io credessi. Leggevo tutto quello in cui speravo di trovare una dimostrazione della religione, ma niente mi soddisfaceva pienamente. La mia fede non era solida e ciò nonostante è meglio credere senza ragione che dubitare, perché questo mi tormenta troppo" (a Auguste Materne, Lione, 5 giugno 1830).

"Quando i miei occhi si rivolgono verso la società, la prodigiosa varietà degli avvenimenti fa nascere in me i sentimenti più diversi. Volta a volta il mio cuore è inondato di gioia o impregnato d'amarezza; la mia intelligenza sogna un avvenire di gloria e di felicità o crede scorgere da lungi la barbarie e la desolazione avvicinarsi a gran passi. Tuttavia, queste stesse considerazioni m'animano e mi compenetrano d'una specie di entusiasmo. Mi dico che è grande lo Spettacolo a cui siamo chiamati; che è bello assistere a un'epoca così solenne; che la missione di un giovane nella società è oggi ben grave e ben importante. Lungi da me i pensieri di scoraggiamento!

I pericoli sono alimento per un'anima che sente in se stessa un bisogno immenso e indefinito che nulla potrebbe saziare. Mi rallegro d'essere nato in una epoca dove forse potrò fare molto bene, e provo allora un rinnovato ardore per il lavoro" (a Hippolyte Fortoul e M. Hommais, Lione, 21 febbraio 1831).

2. Lo studente universitario

"Ho trovato qui dei giovani maturi, forti nei pensieri, di sentimenti generosi, che consacrano la loro riflessione e le loro ricerche a questa alta missione che è anche la nostra.

Ogni volta che un professore razionalista alza la voce contro la Verità rivelata, delle voci cattoliche si alzano per rispondere.

Noi siamo molti ed uniti per questo scopo. Per due volte ho preso parte a questa nobile attività di indirizzare le obiezioni scritte a questi signori Professori. Ma in modo particolare nel corso di storia di M. Saint Marc Girardin; due volte egli aveva attaccato la Chiesa: la prima trattando il papato come un'istituzione passeggera nata sotto Carlomagno; la seconda accusando il clero di avere costantemente favorito il dispotismo. Le nostre risposte lette pubblicamente hanno prodotto il miglior effetto e sul professore e sugli uditori che hanno applaudito" (a Ernest Falconnet, Parigi, 10 febbraio 1832).

3. L'amicizia

"Il principio di una vera amicizia è la carità e la carità non può esistere nel cuore delle persone senza espandersi al di fuori; è un fuoco che si spegne se non è alimentato e l'alimento della carità sono le opere buone" (a Léonce Curnier, Lione, 4 novembre 1834).

4. Il matrimonio e la famiglia

"Mercoledì scorso, 23 giugno alle 10 antimeridiane nella chiesa di Saint Vizier, il vostro amico trovavasi ingi-nocchiato; all'altare stava il fratello maggiore di lui, che

alzava le mani sacerdotali,* mentre ai suoi piedi il fratello minore rispondeva alle preghiere liturgiche. Al suo fianco avreste veduto una giovane, bianco vestita e avvolta in candido velo, pia come un angelo, e già tenera e affettuosa come un'amica.

Più felice di me aveva intorno i suoi genitori, nondimeno tutte le persone che il cielo mi ha lasciato quaggiù si erano date convegno nel luogo sacro. Di più, i miei antichi compagni, i miei fratelli di San Vincenzo De Paoli e numerose conoscenze empivano il coro e popolavano la navata. Era uno spettacolo e le persone estranee, che il caso condusse nella chiesa, rimasero profondamente commosse.

Quanto a me non sapevo bene dove fossi; a stento trattenevo grosse ma deliziosissime lacrime e sentivo che su di me scendeva la benedizione divina unitamente alle parole consacrate" (a François Lallier, Chateau du Vernay près Lion, 28 giugno 1841).

"I miei amici quest'anno devono lavorare molto per aiutarmi a ringraziare Dio. Dopo tanti favori che fissavano la mia vocazione in questo mondo, un nuovo beneficio è venuto a farmi provare la più grande gioia che probabilmente si possa provare quaggiù: io sono padre! Ah! Quale momento è stato quello in cui ho udito il primo grido della mia figlia, in cui ho veduto questa piccola, ma immortale creatura, che Dio affidava alle mie mani, che mi portava tante dolcezze e insieme tanti obblighi! Con quale impazienza ho veduto arrivare l'ora del battesimo! Le abbiamo dato il nome di Maria, che è quello di mia madre e in memoria della potente Patrona, alla cui intercessione attribuiamo questa felice nascita. Ora la madre, quasi del tutto ristabilita, ha la consolazione di allattare la sua figlia.

Cominceremo la sua educazione di buon'ora, mentre essa comincerà la nostra. Mi accorgo che il cielo ce l'ha mandata per insegnarci molte cose e per renderci migliori. Non posso pensare a quest'anima immortale di cui dovrò rendere conto, senza che io mi senta più penetrato dei miei doveri. Poteva Dio scegliere un mezzo più amabile per istruirmi, per correggermi e mettermi sulla via del cielo?" (a Theophile Foisset, Parigi, 7 agosto 1845).

(*) F. Ozanam aveva infatti un fratello sacerdote, Alphonse. Il matrimonio fu celebrato a Lione. I genitori di Federico erano già morti entrambi.

5. Il docente

"Sono con la Chiesa e con l'Università senza esitazione e ho consacrato loro la mia vita, che sarà spesa bene e renderà onore a Dio e servizio allo Stato. Voglio poter conciliare questi impegni a qualunque prezzo.

Credo di averne assolto una parte quando nell'insegnamento, davanti a un pubblico di ogni fede e di ogni partito, insegno con chiarezza la scienza cristiana; credo anche di dare in questo modo la risposta più adatta a coloro che accusano le nostre cattedre. Credo anche che non sia inutile quando porto un contributo universitario nelle riunioni cattoliche, dove cerco, secondo le mie poche forze, di favorire la familiarità a uno studio calmo e serio. Ho fatto di più, né mi sono limitato a dure rimostranze con il direttore della rivista, ho scritto all'autore di uno degli articoli per lamentarmi energicamente. So di scontentare talvolta i miei amici con la mia disapprovazione, ma lo scontentarli può, in un certo senso, aiutarli e moderarli nonché servirli.

So che molti si allarmano quando mi sentono prendere la parola nella stessa aula dove mi ha preceduto un illustre professore di storia antica che aveva attaccato la Rivelazione; sono commosso per queste premure fraterne ma non mi preoccupano. Si potrebbe volermene per scrivere in un giornale in cui mi ha preceduto un avversario universitario, ma c'è una massima accettata da tutti gli studiosi: la responsabilità di ognuno per ciò che scrive" (al Sig. Soulacroix, Parigi, 5 aprile 1843).

"Io mi conosco da lungo tempo e se Dio ha voluto accordarmi un certo ardore per il lavoro, io non ho mai preso questa grazia come dono splendente del genio. Al posto dove mi trovo, ho voluto consacrare la mia vita al servizio della fede, considerandomi sempre come un servitore inutile, come l'operaio dell'ultima ora, che il padrone della vigna non accoglie che per carità. Mi sembra che i miei giorni sarebbero ben riempiti se, malgrado i miei pochi meriti, riuscissi a riunire intorno alla mia cattedra una gioventù numerosa, a ristabilire davanti ai miei uditori i principi della scienza cristiana, a far loro rispettare tutto ciò che invece disprezzano: la Chiesa, il Papato. Avrei voluto raccogliere questi pensieri in libri più durevoli delle mie lezioni e le mie aspirazioni sarebbero com plete se qualche anima errante trovasse in questo insegna mento una ragione per abiurare i propri pregiudizi, ri schiarare i propri dubbi e ritornare con l'aiuto di Dio alla verità cattolica. Ecco che cosa avrei voluto fare in questi

dieci anni, senza ambizioni di un destino più grande, ma anche senza che abbia mai avuto la sventura di disertare il combattimento" (ad Alexandre Dufieux Parigi 14 luglio 1850).

"Signori, si rimprovera al nostro secolo di essere un secolo di egoismo e si va dicendo che i professori sono colpiti dalla epidemia generale. Tuttavia è qui che noi miniamo la nostra salute e che spendiamo le nostre energie. Io non mi rammarico di tutto questo, perché la nostra vita appartiene a voi, noi ve ne siamo debitori fino all'ultimo respiro e voi l'avete ricevuta. Quanto a me, se io muoio, morirò a vostro servizio" (da C.A. Ozanam, "Vie de F. Ozanam", pag. 474, Paris, 1879).

6. La malattia

"So che il mio male è grave, ma non disperato, che ci vorrà molto tempo per guarire e che posso anche non guarire, ma mi sforzo di abbandonarmi con amore alla volontà di Dio e dico, sfortunatamente più con le labbra che col cuore: voglio quello che tu vuoi, voglio come tu vuoi, voglio per il tempo che tu vuoi, voglio perché tu vuoi" (a Salvat Francisteguy, Pisa, 3 aprile 1853).

7. Il testamento

"Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, Amen.

Oggi» 23 aprile 1853, giorno in cui compio 40 anni, nell'inquietudine di una grave malattia, sofferente nel corpo ma sano nello spirito, scrivo in poche parole le mie ultime volontà, proponendomi di scriverle in modo più compiuto quando avrò più forza.

Rimetto la mia anima a Gesù Cristo, mio Salvatore, spaventato dai miei peccati, ma fiducioso nella divina misericordia. Muoio in seno alla Chiesa cattolica, apostolica, romana. Ho conosciuto i dubbi del secolo presente, ma tutta la mia vita mi ha convinto che non c'è riposo per lo spirito e il cuore se non nella fede della Chiesa e sotto la sua autorità. Se assegno qualche valore ai miei lunghi studi, è perché mi permettono di supplicare quelli che amo a restare fedeli a una religione nella quale ho trovato la luce e la pace.

La mia preghiera più alta è per la mia famiglia, mia moglie, mia figlia, i miei fratelli e cognati, per tutti i loro

discendenti, perché perseverino nella fede, malgrado le umiliazioni, gli scandali, le diserzioni di cui saranno testimoni.

Alla mia tenera e cara Amelia, che è stata la gioia e il fascino della mia vita, e le cui cure così dolci hanno consolato da un anno i miei mali, rivolgo il mio addio, breve come tutte le cose terrene. La ringrazio, la benedico e l'aspetto. Solo in cielo potrò renderle tutto l'amore che merita. Do a mia figlia la benedizione dei patriarchi, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Mi è triste non potermi dedicare più a lungo alla sua educazione che mi è tanto cara, ma l'affido senza rimpianto alla carissima e virtuosa madre.

Ringrazio ancora una volta tutti quelli che mi hanno aiutato. Chiedo scusa per la mia vivacità e il mio cattivo esempio, invoco le preghiere di tutti i miei cari, della Società di San Vincenzo De Paoli, dei miei amici di Lione. Non lasciatevi impigrire da chi vi dirà "È in cielo". Continuate a pregare per chi vi ha amato molto, ma che ha molto peccato. Aiutato dalle vostre preghiere, miei cari tanto amati, lascerò la terra con minor timore. Spero fortemente che non ci separeremo affatto, e che resterò con voi fino a che non verrete a me.

Che su tutti noi scenda la benedizione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Amen». Pisa, 23 aprile 1853

8. La Chiesa e i cattolici

"La Chiesa è una società formata per il raggiungimento dei destini immortali del genere umano. Presente in ogni luogo e in ogni tempo, essa riunisce tutte le anime che vogliono camminare sotto i suoi auspici, essa le accompagna nella loro corsa e fino oltre la tomba. Essa riunisce in un'alleanza misteriosa sia le generazioni che sono ancora nella lotta della vita presente, sia quelle che attraversano le espiazioni della vita futura, o che riposano nel trionfo" (Mélanges - Oeuvres Complètes, vol. VII, pag. 449).

"Noi cattolici siamo puniti per aver riposto maggior fiducia nel genio dei nostri grandi uomini che nella potenza del nostro Dio. Non è certo un fragile bastone quello che ci occorre per attraversare la terra: sono le ali, quelle due ali che portano gli angeli, la fede e la carità (...) Al posto del genio che ci manca, occorre che la grazia ci guidi, occorre essere coraggiosi, bisogna essere perseveranti, dobbiamo amare fino alla morte, si deve combattere fino alla fine" (a Léonce Curnier, Parigi, 16 maggio 1835).

9. La Chiesa dei poveri

"La sapienza della Chiesa e la sincerità del suo amore per i poveri risplendono precisamente nel fatto che essa conosce troppo l'estensione dei loro mali ed è troppo compenetrata dei loro dolori per credere di riuscire mai a mettervi fine. Ecco perché riabilita una condizione che non spera di sopprimere, ecco perché circonda la povertà col rispetto della terra e le promesse del cielo" (Les Origines du Socialisme - Mélanges, Oeuvres Complètes, voi. VII, pag. 921).

"I santi erano pazzi d'amore. Il loro amore smisurato abbracciava Dio, l'umanità, la natura e, considerando che Dio si era fatto povero per vivere nella terra, che una gran parte dell'umanità è povera e che la natura stessa, pur nella sua magnificenza, è povera in quanto soggetta alla morte, anch'essi hanno voluto essere poveri: è proprio dell'amore rendersi simile, per quanto possibile, alle cose amate. E noi, amico carissimo, non faremo nulla per assomigliare a questi santi che amiamo?" (a Louis Jan-mot, Parigi, 13 novembre 1836).

Un'ampia parte di questa lettera è diventata la seconda lettura della celebrazione della liturgia delle ore e della messa in memoria del beato Federico Ozanam del giorno 9 settembre.

10. La Società di San Vincenzo De Paoli Lo spirito

"Ora, noialtri siamo troppo giovani per intervenire nella lotta sociale: resteremo dunque inerti in mezzo al mondo che soffre e che geme? No, c'è stata aperta una via preparatoria: prima di fare il bene pubblico, possiamo provare a fare il bene individuale e privato, prima di rigenerare la Francia, possiamo alleviare alcuni dei suoi poveri.

Vorrei anche che tutti i giovani che hanno testa e cuore si unissero per qualche opera di carità e che si formasse per tutto il paese una vasta e generosa associazione per il sollievo delle classi popolari.

Vi racconterò un giorno ciò che si è fatto in questo genere di cose quest'anno e l'anno scorso a Parigi, ve lo racconterò affinché voi vediate se vi conviene prendervi parte" (a Ernest Falconnet, Parigi, 21 luglio 1834).

"San Vincenzo De Paoli è il nostro Patrono e nostro modello. È un modello che bisogna sforzarci di realizzare come egli stesso ha realizzato il modello divino di Gesù Cristo. È una vita che bisogna continuare, un cuore al quale bisogna riscaldare il nostro cuore, un'intelligenza nella quale bisogna cercare dei lumi: è un modello sulla terra e un protettore nel cielo; un doppio culto gli è dovuto, di imitazione e di invocazione" (a François Lallier, Lione, 17 maggio 1838).

"Quelli che sanno la via della casa del povero, quelli che hanno spazzato la polvere della sua scala, non bussano mai alla sua porta senza un sentimento di rispetto: sanno che, ricevendo da essi il pane come ricevono da Dio la luce, l'indigente li onora; sanno che nulla pagherà mai due lacrime di gioia negli occhi d'una povera madre o la stretta di mano d'un galantuomo che viene messo in condizione d'attendere il ritorno del lavoro" (da "L'Ere Nouvelle", Oeuvres Complétes, voi. VII, Melanges, pag. 301).

"Ricordiamoci che i poveri non hanno vacanze...Dei poveri bambini soccorsi, le lacrime asciugate ad una madre, un'anima restituita a Dio, valgono bene l'allegria di una partita di caccia o la dolcezza di errare in un bosco con un bel libro" (Rapporto all'Assemblea Generale, Parigi, 19 luglio 1850 - Bulletin de la Société de Saint-Vin-cet-de Paul, voi. II, pag. 200).

11. Le attività

"Martedì scorso, festa di San Vincenzo De Paoli, ci siamo tutti riuniti la mattina per la messa nella chiesa dei Lazaristi dove riposa il corpo di san Vincenzo De Paoli, e la sera dal signor Bailly per ascoltare le relazioni delle varie sezioni, prendere conoscenza dello stato delle diverse opere, ecc. Il curato della parrocchia, il signor Demante, professore di diritto, il signor Binet, professore di astronomia al Collegio di Francia, alcuni altri signori che avevamo invitato per avere i loro scudi, assistevano alla seduta.

Risulta dai rapporti che la Società si compone di circa 200 membri che visitano 100 famiglie povere e distribuiscono ogni anno poco più di 4000 franchi in aiuti a domicilio, ai quattro angoli di Parigi.

Inoltre possediamo una casa per apprendisti stampatori, dove alloggiamo, manteniamo e istruiamo dieci ragazzi poveri, quasi tutti orfani. Alcune caritatevoli persone ci pagano una mezza pensione per ognuno di loro; tuttavia questa sistemazione ci costa circa 250 franchi al mese; essi imparano a stampare nei bei laboratori del signor Bailly e qualcuno di noi da loro lezioni di scrittura, di calcolo, di storia sacra, ecc. Un nostro amico ecclesiastico fa loro il catechismo; ve ne sono anche due più grandi ai quali si insegna un po' di latino, ciò che è adesso necessario per essere ammessi come correttori e anche come compositori nelle buone stamperie parigine.

Per curarli essi hanno un brav'uomo ed una brava donna senza figli, i quali sono entusiasti della loro famiglia adottiva. Il marito è impiegato in un ufficio, la moglie non ha niente da fare; noi gli diamo l'alloggio e inoltre una piccola indennità in denaro. Il giorno di san Vincenzo De Paoli si è fatto festa per i ragazzi e si è dato loro un piccolo pasto del quale sono rimasti entusiasti. Abbiamo motivo di sperare che quest'istituzione prospererà. Tuttavia, quando l'abbiamo fondata, mi sembrava una gran pazzia, non avevamo che 180 franchi; la Provvidenza vi ha provveduto.

Adesso io sono convinto che in fatto di opere di carità non bisogna mai preoccuparsi delle risorse finanziarie, arrivano sempre.

Alcuni nostri colleghi sono stati incaricati dal presidente del tribunale civile di far visita ai fanciulli detenuti su richiesta dei loro genitori. Si fa ciò che si può; si danno loro tutti i giorni delle lezioni ma è un'opera molto ingrata.

Questi piccoli sfortunati, sono per la maggior parte corrotti fino in fondo al cuore, ed essendo il periodo di detenzione non più lungo di tre mesi, è impossibile correggerli. Non importa, si semina sempre, lasciando a Dio la cura di far germogliare il seme a suo tempo. Se si hanno poche consolazioni da questa parte, se ne hanno altrove. Si è ottenuta l'abiura di una povera malata protestante, si è fatta fare la prima comunione a parecchi poveri moribondi. Abbiamo fatto sposare in chiesa e davanti allo stato civile delle persone che vivevano insieme da tanto tempo. Io vi parlo liberamente di tutte queste opere perché so che vi interesseranno e perché io non vi ho che una piccola parte.

In ogni modo, siccome queste opere sono quelle dei miei amici, sicccome siamo associati esse mi appartengono anche in questo senso. In questo «commercio» di carità nel quale si è voluto ammettermi, io metto poco e prendo molto.

Il Governo e l'Autorità ecclesiastica sono stati informati dell'esistenza della nostra piccola società e ne hanno mostrato molta soddisfazione. Abbiamo tra i nostri amici un pari di Francia, dei nobili, dei bravi artisti, un musicista che un mese fa faceva accorrere Londra intera ai suoi concerti, degli impiegati del ministero, vecchi sansimoniani, degli ingegneri, avvocati in quantità, dei medici, degli studenti, dei piccoli commercianti, fino a dei commessi di negozio. Le due sole cose che abbiamo in comune sono: la giovinezza e la rettitudine delle intenzioni" (a sua madre, Parigi, 23 luglio 1836).

"Cerchiamo di non raffreddarci, ma ricordiamoci che nelle cose umane non c'è successo possibile che attraverso uno sviluppo continuo e che non camminare equivale a cadere. Io sono dunque partigiano delle innovazioni, delle suddivisioni, di nuove Conferenze, di corsi, di quanto altro piacerà. Spero nella riuscita a condizione del coraggio, occorre fare qualcosa al più presto. Io spingerò con tutte le mie forze" (a Henri Pessonneaux, Lione, 2 novembre 1834).

12. I poveri

"Sembra che per amare si debba vedere e noi non vediamo Dio se non con gli occhi della fede, e la nostra fede è così debole! Ma, gli uomini, ma i poveri, li vediamo con gli occhi della carne, sono qua e noi possiamo mettere il dito e la mano nelle loro piaghe e i segni della corona di spine sono visibili sulla loro fronte, e noi dovremmo cadere ai loro piedi e dire loro con l'apostolo: Tu sei il mio Signore e il mio Dio. Voi siete i nostri padroni e noi saremo i vostri servitori, voi siete per noi l'immagine sacra di quel Dio che non vediamo, e non sapendolo amare in altro modo, noi l'ameremo nella vostra persona" (a Louis Jan-mot, Lione, 13 novembre 1836).

"L'assistenza onora, quando congiunge al pane che nu-tre, la visita che consola, il consiglio che illumina, la stretta di mano che ravviva il coraggio abbattuto; quando tratta il povero con rispetto, non come un eguale ma come un superiore, giacché egli sopporta ciò che forse noi non sapremmo sopportare, giacché si trova fra noi come un inviato di Dio per provare la nostra giustizia e e la nostra carità e per salvarci mediante le nostre opere" (da "L'Ere Nouvelle" - in Oeuvres Complètes, voi. VII - Mèlanges pag. 239).

"Oh, quante volte, preso da qualche sofferenza interiore, tormentato dalla mia salute gravemente deteriorata, colmo di tristezza, io sono entrato nella casa di un povero affidato alle mie cure, e là, alla vista di tante miserie che meritavano più compassione di me, mi sono rimproverato il mio scoraggiamento, mi sono sentito più forte contro la mia sofferenza, e ho ringraziato quel povero che mi aveva consolato e ridato forza alla vista delle sue miserie. E come, dopo allora, io l'ho amato ancora di più" (discorso alle Conferenze di Firenze, gennaio 1853).

13. L'elemosina

"Non crediate a coloro che riprovano l'elemosina come uno degli abusi più deplorevoli della società cattolica, come una consacrazione dell'ineguaglianza, come il mezzo di costituire il patriziato di colui che da e l'ilotismo di colui che riceve. Sì, senz'alcun dubbio, l'elemosina obbliga il povero; ed alcuni perseguono infatti l'ideale di uno stato dove nessuno fosse debitore di altri, dove ciascuno avesse l'orgoglioso piacere di non dovere niente a nessuno, dove tutti i diritti e i doveri sociali si bilanciassero come le entrate e le uscite di un libro mastro. Ciò è quello che chiamano l'avvento della giustizia in luogo della carità, come se tutta l'economia della Provvidenza non consistesse in una reciprocità di aiuti che non si pareggiano mai; come se un figlio non fosse l'eterno debitore del padre, un padre dei suoi figli, un cittadino del suo paese; e come se vi fosse un solo uomo così infelice, così abbandonato, così isolato sulla terra, da potersi dire, coricandosi la sera, di non essere debitore di nessuno...

No, non crediate di umiliare il povero con l'elemosina, poiché l'elemosina stessa è la sola retribuzione dei servizi pubblici che non si pagano. Voi non pagate la preghiera del prete, e quell'obolo che gli fate quando scende dall'altare, la Chiesa non gli permette di accettarlo che a titolo di elemosina... Noi non paghiamo neppure la povera vedova, l'operaio senza lavoro, il padre di famiglia bisognoso, le cui sofferenze espiano le nostre colpe, e che soddisfano in nostra vece la giustizia divina. Ah, avremo un bel soccorrere l'indigente, rimarremo sempre i suoi debitori e non l'avremo umiliato trattandolo come il pre-te che ci benedice" ( Rapporto all'Assemblea Generale,

Parigi, 14 dicembre 1848 - Bulletin de la Société de S.V. de P., voi. I, pag. 146).

14. L'umanità contemporanea

"L'umanità contemporanea mi sembra paragonabile al viaggiatore di cui parla il Vangelo. Anche essa, mentre seguiva la strada tracciatale da Cristo, fu assalita dai ladroni del pensiero, da uomini cattivi che le rapirono tutto quello che essa possedeva: il tesoro della fede e dell'amore e la lasciarono nuda e gemente sul ciglio della strada. I preti e i leviti sono passati, e questa volta, essendo dei veri preti e leviti, si sono accostati a quel misero sofferente e vollero guarirlo. Ma egli nel suo delirio non li riconobbe e li respinse.

A nostra volta noi, deboli samaritani, profani e gente di poca fede come siamo, osiamo accostarci a questo grande ammalato. Forse non si spaventerà di noi; sforziamoci di misurare quelle piaghe e di versarvi olio; facciamo risuonare alle sue orecchie parole di consolazione e di pace. Quando poi i suoi occhi si saranno aperti lo rimetteremo nelle mani di coloro che Dio ha stabilito come guardiani e medici delle anime e che sono anche in qualche maniera, nostri albergatori nel pellegrinaggio di quaggiù, perché danno ai nostri spiriti erranti ed affamati la parola santa per nutrimento e la speranza di un mondo migliore come rifugio" (a Léonce Curnier, Parigi, 23 febbraio 1835).

15. Il sociale e le riforme politiche

"La questione che divide gli uomini dei nostri tempi, non è più una questione di forma politica, è una questione sociale: si tratta di sapere chi vincerà: o lo spirito di egoismo o lo spirito di sacrificio; se la società non sarà altro che uno sfruttamento a profitto dei più forti o una consacrazione di ciascuno al servizio di tutti.

Ci sono molti uomini che hanno troppo e che vogliono avere ancora; ce ne sono ancora molti di più che non hanno niente e che vogliono prendere se non si dà loro niente. Tra queste due classi di uomini si prepara una lotta e questa lotta minaccia di essere terribile: da una parte la potenza dell'oro, dall'altra la potenza della disperazione. Tra queste due armate nemiche dobbiamo precipitarci noi, se non per impedire, almeno per attenuare lo scontro. La nostra età di giovani e la nostra media condizione ci rendono più facile questo compito di mediatori che ci è imposto come obbligo dal nostro titolo di cristiani" (a Louis Janmot, Lione, 13 novembre 1836).

"Certamente noi dobbiamo tentare di arrivare alla radice del male e cercare, attraverso sagge forme sociali, di ridurre la miseria diffusa. Ma noi siamo convinti che la conoscenza delle riforme debba essere appresa non tanto riflettendo sopra i libri o discutendo tra i politici, ma andando a visitare le soffitte in cui vivono i poveri, sedendo al capezzale del moribondo, sentendo il freddo che essi sentono e apprendendo dalle loro labbra la causa dei loro dolori. Quando noi avremo fatto questo non soltanto per pochi mesi, ma per molti anni, quando noi avremo studiato i poveri nelle loro case, nelle scuole e negli ospedali non solo in una, ma in molte città, allora noi cominceremo a capire un po' del difficile problema della povertà. Allora avremo il diritto di proporre riforme che, invece di suscitare il terrore nella società, porteranno pace e speranza a tutti" (all'Assemblea Generale, Parigi, 14 dicembre 1848 - Bulletin de la Société de S.V. de P. vol. I, pag. 147).

16. La carità

"La carità appartiene a tutti i luoghi e a tutti i tempi; e questa cosa eterna è al tempo stesso estremamente evolutiva, perché ha questa caratteristica, di non accontentarsi di nessun progresso, di non trovare riposo finché c'è un male senza rimedio" (Rapporto all'Assemblea Generale, Parigi, 19 luglio 1849 - Bulletin de la Société de S.V. de P., voi. I pag. 254).

"La fede e la carità dei primi secoli? Non è troppo per la nostra epoca! Non siamo forse come i cristiani dei primi tempi, gettati in mezzo ad una civiltà corrotta, ad una società cadente?

Un rapido sguardo al mondo che ci circonda: gli uomini ricchi e gli uomini felici, valgono forse molto di più di quelli che rispondevano a San Paolo: "Ti ascolteremo un'altra volta?". E i poveri ed il popolo, godono forse più benessere di coloro ai quali predicavano gli apostoli?... la terra si è raffreddata e tocca a noi cattolici ricominciare l'era dei martiri... essere martire significa dare la propria vita per Dio e per i propri fratelli... significa dare al cielo tutto quel che se ne è ricevuto, la nostra ricchezza, il nostro sangue, la nostra intera anima. Questa offerta è nelle nostre mani, noi possiamo fare questo sacrificio" (a Léonce Curnier, Parigi, 23 febbraio 1835).

"In tempi meno burrascosi non avremmo che da fare la carità, oggi dobbiamo riabilitarla. Sì, la confusione si è fatta tale nelle idee e nel linguaggio degli uomini, che nel momento in cui la fraternità cristiana è scritta sulla facciata di tutti i monumenti, la carità, e cioè l'espressione più tenera della fraternità cristiana, è divenuta sospetta all'orecchio del popolo, e per parlargliene occorrono delle circumlocuzioni e delle perifrasi.

Gli è che la carità fu compromessa da coloro che la praticarono male, dalla filantropia, più prodiga di discorsi che di sacrifici, dalla beneficenza sdegnosa, dallo zelo indiscreto. Sta a noi sradicare questi vizi che rendono l'elemosina umiliante al povero e sterile davanti a Dio. Sta a noi sopprimere la freddezza che guasta un beneficio, l'impulsività e le imprudenze che lo compromettono e di riportare la carità, come la vuole il Vangelo, in mezzo a questo popolo che non aspetta che di vederla nei suoi veri tratti per riconoscerla e benedirla" (Rapporto all'Assemblea Generale, Parigi, 2 agosto 1848 - Bulletin de la Société de S.V. de P, voi. I, pag. 39).

17. La carità e la giustizia

"È purtroppo vero che molti, anche cristiani, hanno il torto di spingere la ricerca della giustizia fino a dimenticare la carità, e di occuparsi di affari e di pericoli più che di opere e di sacrifici. La politica non tiene conto che della giustizia, e come la spada che ne è il simbolo, colpisce, recide, divide. La carità, invece, tiene conto delle debolezze, cicatrizza, riconcilia, unisce; senza alcun dubbio la politica deve avere il suo posto ed il suo tempo nella società cristiana, ma la carità è di tutti i luoghi e di tutti i tempi; e questa cosa eterna è nel medesimo tempo progressiva, perché la sua caratteristica è di non accontentarsi di alcun progresso, di non trovare requie finché vi sia un male da soccorrere." (Rapporto all'Assemblea Generale, Parigi, 19 luglio 1849 - Bulletin de la Société de S.V. de P, voi. I, pag. 248).

"La carità non deve mai guardare dietro di sé, ma sempre davanti, perché il numero delle suo beneficenze passate è sempre troppo piccolo e perché infinite sono le miserie presenti e future che deve lenire. Guardate le associazioni filantropiche: non sono che assemblee, relazioni, rendiconti, memorie; a meno d'un anno d'esistenza posseggono già grossi volumi di verbali. La filantropia è un'orgogliosa per cui le buone azioni sono una specie d'ornamento e che si compiace di guardarsi nello specchio. La carità è una tenera madre che tiene gli occhi fissi sul bimbo che porta alla mammella, e non pensa più a se stessa e dimentica la sua bellezza per il suo amore" (a Léonce Curnier, Parigi, 23 febbraio 1835).

18. La carità e i giovani

"Voi avete dei discepoli ricchi. Quale utile lezione per fortificare i cuori molli, quale benefico spettacolo mostrare loro dei poveri, mostrare loro nostro Signore Gesù Cristo non solo in immagini dipinte dei più insigni maestri, o su altari risplendenti d'oro e di luce; ma mostrare loro Gesù Cristo e le sue piaghe nelle persone dei poveri!

Spesso abbiamo parlato della debolezza, della frivolezza, della nullità di uomini anche cristiani. Ma io sono certo che sono così perché una cosa è mancata nella loro educazione. Una cosa che a loro non si è affatto insegnata, una cosa che essi conoscono soltanto di nome e che occorre aver visto soffrire dagli altri per imparare a soffrirla quando presto o tardi verrà. Questa cosa è il dolore, è la privazione, è il bisogno. . .

Occorre che questi signorini apprendano che cosa sia la fame, la sete, lo squallore d'una soffitta; occorre che vedano dei miserabili, dei fanciulli malati, dei fanciulli in pianto. Occorre che li vedano e che li amino. O tale spettacolo sveglierà qualche battito nel loro cuore, o questa generazione è perduta. Ma non si deve mai credere alla morte d'una giovane anima cristiana. Non è morta, ma dorme" (al Padre Tommaso Pendola, Antignano, 9 luglio 1853).